Cose che non abbiamo avuto. Il lutto per le esperienze non fatte
Remember to say “thank you”
for the things you haven’t had
La rinuncia sembra una delle esperienze psicologiche più difficili.
Il grande rimosso di oggi, credo, è il concetto di fine, inteso sia come termine che come finitezza, confine.
Spesso si vive una brama di avere tutto, che non si limita a oggetti, ma anche a esperienze, anche al fare, assaggiare, provare tutto. Una sete, una fame insaziabile. In questo contesto, trovo puntuali in questa epoca storica, pervasa fino all’essenza più profonda dal consumismo, le diverse forme di collezionismo e smania di completezza, che va dalle serie televisive alle edizioni speciali e limitate di praticamente qualsiasi cosa, dai dischi agli hamburger.
Sembra di muoversi come gli ignavi di Dante, inseguiti eternamente da api, ma in questo caso attirati da un oggetto che non ci sazierà, ma ci farà venire una fame ulteriore, diversa.
Una smania a collezionismo, una compulsione al “completamento” di un qualcosa che viene ricercato, ahinoi, fuori da sé.
Questo si riflette anche nelle relazioni. Da un punto di vista psico-corporeo, quando scriveva Lowen, si poteva osservare una diffusa incapacità di amare contemporaneamente col cuore e sessualmente, generata da conflitti psichici che si traducevano, nel corpo, a una separazione fra cuore e genitali. Quello che si osserva ora è qualcosa di differente: la società consumistica ci ha “iperoralizzato”, rendendoci sempre affamati e insaziabili. Non solo di cose e “esperienze” ma anche di relazioni.
Il fatto (quasi inconcepibile!) di dover rinunciare a qualcosa, può generare un senso di mancanza, di incompletezza e, di nuovo, ansia e foga di completamento.
Non (si) è mai abbastanza.
Viviamo in un tempo storico in cui, come già notava Erich Fromm, il piano dell’Avere e quello dell’Essere, sono spesso con-fusi.
Se vogliamo avere (o essere) tutto, non avremo, né saremo mai abbastanza.
Ci sentiremo sempre in difetto, difettati o difettosi.
Come uscirne, dunque?
Accettare la rinuncia, e vivere il lutto per le cose che non abbiamo avuto, le esperienze non fatte, i viaggi che non potremo mai fare, tutti i libri che non riusciremo a leggere…
Ciò che ci può completare, ciò che ci può saziare, non è all’esterno, ma dentro di noi, invisibile, nell’Ombra.
Psiche tende alla completezza, non alla saturazione, a comprendere e integrare il suo opposto, non tutto.
Questa è la via dell’analisi del profondo, che porta verso la completezza del Sè, in una sorta di Mandala capace di integrare le nostre luci e le nostre ombre, i nostri pieni e i nostri vuoti.
E questa unione di pieno e vuoto si manifesta, a livello corporeo, nel respiro: è riappropriandoci di una respirazione naturale e libera che riusciamo a integrare quelle parti di noi e di vitalità di cui ci siamo dovuti privare, nostro malgrado, per sopravvivere, per non soffrire.
Il respiro rappresenta anche il lasciar andare: una inspirazione piena può seguire solo una espirazione completa, uno svuotamento.
Il vuoto si fa pieno.
(dal Divenire Magazine)