Altre due #psicogeografie
Riporto qui i link ai miei ultimi 2 articoli psicogeografici per eppen. Li sento intimamente legati, dato che i temi sono profondamente connessi: il tempo e la fine
Riporto qui i link ai miei ultimi 2 articoli psicogeografici per eppen. Li sento intimamente legati, dato che i temi sono profondamente connessi: il tempo e la fine
Spesso paragono la psicoterapia a un cammino, in cui il mio ruolo è quello di accompagnatore. È come se chi si rivolge a me mi stesse chiedendo di accompagnarlo a Santiago: io non ho mai fatto il Cammino di Santiago, ma ho percorso centinaia (migliaia?) di chilometri su altri cammini e in varie declinazioni del viaggio a piedi. Sono quindi abbastanza esperto di questo tipo di viaggio, ma il territorio in cui ci muoveremo non è il mio. Non sempre sarò io a dare il passo, a decidere la destinazione finale e quando va bene fermarsi. Sicuramente posso motivare a andare avanti ancora un po’, se sento che è il caso. Di certo non porto io lo zaino di chi accompagno…
Questa lunga premessa per raccontare che qualche settimana fa ho seguito un corso per diventare Guida Interpretativa, un corso in cui ho imparato le basi di una disciplina che non conoscevo: l’Interpretazione del Patrimonio. Si tratta di comunicare emozioni e esperienze per rendere vivo il contatto con il patrimonio, sia questo artistico, culturale o naturale.
Uno degli obiettivi dell’Interpretazione è far innamorare chi osserva di quello che sta guardando, facendo nascere un senso di responsabilità verso il patrimonio. Questo mi riporta alla mente quanto diceva Hillman nel suo ultimo libro/intervista, L’Ultima Immagine:
“quando vediamo bellezza in qualcosa, la amiamo…E questo significa che se vogliamo preservare questo pianeta – stiamo parlando del crollo adesso – dobbiamo vedere la sua bellezza, perché se la vediamo ce ne innamoriamo. E se ci innamoriamo della Terra, non vogliamo farle del male…La prima cosa che vogliamo fare a ciò che amiamo è proteggerlo, stringerlo a noi, aiutarlo. E questa è una motivazione completamente estranea alla sfera economica, o a quella dell’espiazione, del senso di colpa per quanto abbiamo fatto in passato. No. Non toccatela. È questa l’istanza che va dritta al cuore”.
Ho vissuto l’esperienza dell’interpretazione come un tentativo di dialogo col Genius Loci del luogo in cui mi trovavo, con l’Anima di ciò che stavo osservando, e questo mi è molto prezioso per come intendo il viaggio, anche in senso simbolico e metaforico.
Dove mi porterà questo sentiero ancora non lo so, fare questo corso è stata innanzitutto una sfida con me stesso e un allargare i miei confini. Spesso ciò che conta è concedersi di perdere l’equilibrio, di sbilanciarsi in avanti e iniziare a camminare.
Sicuramente non posso fare a meno di notare alcune analogie dell’interpretazione del patrimonio con il mio lavoro, che spesso significa accompagnare qualcuno in un viaggio attraverso le proprie Ombre, verso il proprio Sè, “interpretando” ciò che incontriamo in questo Viaggio. Un Viaggio che può portare a ri-innamorasi di ciò che si è, o quantomeno a volersi bene.
Scherzando (ma non troppo) se considero la psicoterapia come un viaggio con un accompagnatore, l’Interpretazione del Patrimonio può esser vista come una “terapia di coppia” fra l’Umano e la Natura?
Dal mese scorso ho iniziato una rubrica su eppen, magazine on line de L’Eco di Bergamo. Il titolo è psicogeografie, e si tratta di un tentativo di esplorare la relazione fra Psiche e Territorio. Scriverò delle derive partendo da un luogo di Bergamo e cercando di arrivare da qualche parte nella Psiche.
Tutti i luoghi sono vivi, hanno un’anima, sono abitati da un genius loci . Hanno dunque una psiche con cui è possibile entrare in relazione. Da psicoterapeuta errante , amante dei viaggi a piedi, ho scoperto che camminare è un modo per entrare in relazione con i luoghi e, a volte, può offrire la possibilità di risignificare camminando, come a tracciare un nuovo solco emotivo nel territorio.
Per ora sono usciti 2 articoli, che trovate qui:
Buoni passi!
“Non capisco cosa mi sta succedendo, sono sempre stata un caterpillar!” dice la ragazza, riferendosi alla sua forza, alla sua resistenza e tenacia.
Caterpillar, come gli enormi mezzi da cantiere. Ma le macchine non sentono, possono solo lanciare piccoli segnali d’allarme, spie luminose per richiamare l’attenzione su ciò che succede dentro. Non importa quanto grande e profondo sia ciò che sta succedendo nel motore, il segnale è comunque piccolo. Finché il gigante di metallo si arresta, non funziona più.
Fuor di metafora, nella vita psichica rischiamo di avanzare determinati, spinti dalla forza di volontà, da un carattere forte, dall’illusione di essere indistruttibili. Non entriamo così in contatto con il mistero che abbiamo dentro, con la nostra meravigliosa fragilità. Ci perdiamo il senso. Per questo Psiche a volte ci ferma. Inizia dandoci qualche timido gentile segnale. Se la ignoriamo, però, il motore si inceppa e ci blocchiamo. Possono arrivare attacchi di panico, depressione, accidia e indolenza, regressioni in vecchie dipendenze, e chi più ne ha più ne metta.
Proviamo invece a fermarci, a contemplare la nostra fragilità.
Nel mito, Psiche viene lasciata spesso a casa sola dal suo amante, Eros, che lei non può vedere. Ora, per gioco, immaginiamo che Psiche venga rinchiusa in casa, senza la possibilità di uscire, se non con autocertificazione, e senza poter invitare nessuno. Cosa succederà, prima o poi? Quello che succede a tutti noi, in questi tempi di costrizione: una volta finite le cose da fare (che per alcuni sono ridotte o annullate, a seconda della situazione lavorativa), si metterà a sistemare la casa. Credo che molti in questi giorni si stiano dando da fare con tutti quei lavoretti spesso rimandati, chi sistema il giardino, chi dipinge una stanza, chi fa le pulizie di fino e spolvera ogni angolo remoto della sua casa, ogni guida di ogni piastrella, ribaltando ogni angusto armadietto fino all’ultimo cassetto segreto.
Psiche fa la stessa cosa. Una volta sistemati gli affari e le faccende domestiche, una volta preparata la cena, una volta esaurite le vene creative della giornata, si ritrova a spolverare gli angoli della sua Casa, angoli in cui magari non guardava da tempo. E inizia la scoperta, o meglio, la riscoperta di tanti piccoli oggettini di cui non ricorda l’esistenza. Oppure cose grosse, nascoste da una pila di vestiti che non mette più da anni. Cose che non voleva più vedere e si illudeva fossero sparite. Cose che cercava da tempo e non riusciva a trovare. Cose che non sapeva di avere.
E contempla questi oggetti, e ricostruisce le loro storie, e si chiede come in questo momento possano tornarle utili.
Nel nostro mondo, che è un riflesso (o l’ombra) di quello mitico in cui vive Psiche, a livello individuale, come si riflettono questi movimenti?
Mi sono accorto che, in me e in alcune delle persone che riesco a vedere e sentire – alla distanza di sicurezza, fisica ma non emotiva, consentita e permessa dagli strumenti della tecnologia – succede qualcosa di simile a quanto narravo poco sopra.
La nostra Psiche, trovatasi sgravata da molte incombenze della quotidianità pre-quarantena (chi non ha più possibilità di cercare un lavoro, chi ha un’attività ridotta, chi ha meno cose a cui pensare, avendo meno possibilità di muoversi, chi non può momentaneamente affannarsi nelle corse e rincorse abituali), si mette a fare le pulizia di casa. Ma la casa della nostra Psiche è, almeno in parte, la nostra Memoria. E così riaffiorano ricordi dimenticati, episodi spiacevoli o ricordi densi di emozione che non erano realmente rimossi, ma semplicemente riposti in un cassetto in cui non guardiamo tanto volentieri, o quantomeno molto spesso.
Come se la Psiche, in un momento in cui si ritrova ad avere più risorse energetiche disponibili (perché non impiegate altrove come d’abitudine), si potesse concedere il lusso di fare quei movimenti regressivi, di pulizia e riordino, che le (e ci) permettono di andare dove abbiamo avuto blocchi più o meno grandi, a sanare ferite dimenticate o a tappare piccole buche nell’asfalto della nostra Strada interiore. Ed ecco quindi che emergono ricordi, immagini del nostro passato che tanto ci possono insegnare ad affrontare le difficoltà del presente, non solo legate alla contingenza del lockdown ovviamente, ma di quello che si sta muovendo nel nostro profondo.
Un’altra occasione che, se si presenta, credo sia importante cogliere. Come alcuni di noi possono concedersi il lusso di sistemare e riordinare la propria casa, possiamo concedere alla nostra Psiche di fare lo stesso.
(pubblicato originariamente qui)
Dai diamanti non nasce niente,
dal letame nascono i fior
Fabrizio de André – Bocca di Rosa
The only way out is down
Alexander Lowen
Improvvisamente, tutto è cambiato. Forse non così improvvisamente, ma sicuramente in maniera molto rapida, abbiamo dovuto cambiare in maniera imprevista. Una malattia, parzialmente sottovalutata, è arrivata fino a noi, nel produttivo Nord Italia, costringendoci a rallentare o addirittura a fermarci.
Ci siamo trovati di fronte all’Imprevisto, siamo messi a confronto con l’Incertezza e col dramma che molte delle cose che credevamo sicure, possono vacillare.
Stiamo vivendo un momento caotico, buio, che per molti di noi rappresenta una novità. Non abbiamo vissuto guerre in prima persona, né carestie gravi o epidemie di questo livello.
L’unico momento simile, forse, risale ai tempi dell’incidente di Chernobyl. Avevo meno di 6 anni, quindi tutto è un po’ sfumato, ma ricordo che potevamo bere solo latte in polvere, e si stava più in casa; ma la percezione era di qualcosa successo lontano. Il corona virus, invece, è qui.
Tutto cambia, tutto sembra fuori controllo, stiamo attraversando il caos. È un momento di merda.
Ricorda, da vicino, la prima fase del processo alchemico: la nigredo. La materia prima, che talvolta è proprio sterco, deve putrefarsi, decomporsi, dissolversi. Si tratta dell’Opera al Nero, e i trattati di alchimia la rappresentano spesso con un cadavere beccato da un corvo. Rappresenta la Notte Oscura dell’Anima, l’inverno. Ma è una fase necessaria, e transitoria. Dal nero, si passa al bianco dell’Albedo, a ogni notte segue una nuova alba.
Nel frattempo, cerchiamo di imparare da quello che sta succedendo. Si sono aperti spazi e esempi di solidarietà. Nella distanza, ci siamo trovati tutti più vicini (mentre da vicini a volte, quanto siamo stati distanti, connessi altrove?). Stiamo andando più lenti, abbiamo meno fretta, inquiniamo di meno, respiriamo meglio e più profondamente. O forse dobbiamo correre di più, ma abbiamo meno spazio perché con scuole chiuse, lavoro da casa, gli spazi si riducono e le pressioni aumentano. Paradossalmente la vicinanza può acuire i conflitti nelle relazioni, ma questo può evidenziare gli ostacoli e gli attriti che possiamo superare. Impariamo dalla compressione. Stiamo imparando la forza che c’è nel potersi mostrare deboli, fragili, umani. Forse consumiamo di meno. Possiamo apprezzare le piccole cose, il canto degli uccelli dalla finestra e i fiori che sbocciano, non timidi.
C’è una parola, secondo me , abusata: resilienza. Resilienza è la capacità di un materiale, dopo un urto, di tornare al suo stato originario. Ma in questo caso non basta. Sarà necessaria una trasformazione, la Materia (di) Prima che si è dissolta, dovrà coagularsi in una altra forma. Perché non potrà essere come prima: alcuni di noi saranno un po’ più soli, un po’ più poveri. Qualcuno non ci sarà più e probabilmente molti di noi avranno a che fare con l’assenza di qualcuno. Una parola, che forse va rispolverata, è resistenza. In questo caso può aiutarci a re-stare con quello che sta accadendo e a esser pronti, a farci forza nel dolore, senza negarlo.
Quando tutto questo finirà, perché finirà, dovremo rimboccarci le maniche e ricostruire, ricominciare. Ma se avremo imparato da ciò che è stato in questi giorni bui, andremo verso una nuova fase più luminosa.
Ciò che mi auguro, e ci auguro, è che questo momento di riposo forzato, sia il riposo del seme.
Arriverà Primavera.
(pubblicato ieri sul Divenire Magazine )
Una volta – ero ancora uno studente universitario pendolare – sul treno del ritorno, ascoltai mezzo addormentato una ragazza che descriveva a un’amica l’oggetto della sua tesi di laurea: il buco nero che sta al centro della nostra galassia. Allora non ne sapevo nulla, ma la cosa mi colpì nel profondo e evidentemente lasciò una traccia nei miei pensieri.
Ora, ormai molto tempo dopo, mi capita di incontrare persone che hanno, al proprio centro, un buco nero. Come in astrofisica, un buco nero può essere un oggetto anche piccolo, ma di una massa enorme, tale che tutto gira intorno ad esso e tende a esserne risucchiato.
La forza che agisce tutto questo è la gravità, nell’universo, ma anche nostro universo psichico conta quanto è grave, pesante per noi, ciò che ha generato il buco nero. Può essere un evento traumatico, o un trauma ripetuto. Una deprivazione o un’assenza. Un abbandono.
Qualcosa nel nostro universo psichico collassa e si fissa in un punto al centro di noi stessi, e pian piano attira a sé ogni cosa, diventando sempre più pesante, e diventando più pesante aumenta anche la propria capacità di attrarre altri oggetti psichici. Tutto sembra girare, o meglio orbitare, gravitare, intorno a quel nucleo di dolore. Possiamo non pensarci, tentare di distrarci riempendo la nostra agenda di attività e la nostra vita di cose, ma prima o poi, come la proverbiale lingua sul dente che duole, là torniamo, perché tutta la nostra galassia sembra destinata a essere risucchiata da quel buco nero. E ogni tentativo di fuggire a questa attrazione è vano.
Ma cosa è questa forza che trascina tutto e tutto muove? La gravità è una forza che, qui sulla Terra, ci porta verso il basso, come, a livello psichico, fa la depressione. Ma Lowen, il creatore dell’analisi bioenergetica, diceva: “La sola via d’uscita è verso il basso”, ovvero verso la Terra, e grazie al grounding, che ci permette sia di essere più solidi e radicati nella realtà che di scaricare i pesi, anche e soprattutto emotivi, a terra.
Un’altra cosa che succede, quando ci si avvicina a un buco nero, è che il tempo si dilata, e sembra non passare mai. La cosa singolare, è che può coinvolgere anche chi sta vicino alla persona a contatto col suo buco nero: da terapeuta, nonostante la frequenza settimanale, può capitare di aver l’impressione di aver visto una persona molto tempo prima, o solo pochi giorni, e l’impressione è di essere dentro a diverse velocità dello scorrere del tempo, di essere coinvolti dal Kairos di chi ci sta di fronte.
Ma cosa vuole dunque da noi, questo buco nero? Non può semplicemente sparire, auto-risucchiarsi? O non urlare, quando cerchiamo finalmente di prender sonno?
E se volesse semplicemente la nostra attenzione? Se ci chiedesse di starci dentro e non evitare la sofferenza, illudendoci di avere questo potere?
Forse così potremmo aprire e aprirci a altre possibilità (non dimentichiamo che per certa fantascienza i buchi neri sono porte per altri universi!). Le tempeste vanno attraversate, e ogni anno dobbiamo superare l’inverno, per tornare a primavera. Allo stesso modo, quel buco può essere integrato, compreso, nella nostra vita psichica.
La nostra Terra, se restringiamo il campo, è parte di un sistema, e gravita intorno al Sole, che ci dà luce, calore e energia. Non c’è solo il buio, insomma, ma anche una stella intorno a cui girare.
(articolo pubblicato sul Divenire Magazine)
“To see a world in a grain of sand
And a heaven in a wild flower,
Hold infinity in the palm of your hand,
And eternity in an hour.”
William Blake – Auguries of Innocence
Qualcuno, entrando nella stanza del Gioco della Sabbia, vedendo tutte le statuine sugli scaffali, mi ha chiesto: “Ma…sono i tuoi giochi di quando eri bambino?”. Sarebbe una strana collezione per un bambino, fatta sì di animali da fattoria e personaggi da cartoni animati, ma anche di draghi, divinità greche, statuette Dogon, oggetti simbolici…
Purtroppo no, i giocattoli che avevo sono andati perduti, fra traslochi e donazioni, più o meno volontarie, a cugini più piccoli. Ah, se li avessi conservati! – mi dico – ora mi sarebbero tornati utili!
Questo apre la riflessione su una domanda più grande: cosa abbiamo perso della nostra infanzia e del nostro essere (stati) bambini? A cosa potrebbe tornarci “utile” ora? Ma soprattutto: esiste un modo per recuperare?
Una breve digressione: esiste una medusa, la Turritopsis nutricola – cui Aldo Nove ha dedicato alcune poesie nel suo “A schemi di costellazioni” – definita la “medusa immortale” che ha lo straordinaria capacità, una volta vecchia, rigenerarsi e “ringiovanire”. La natura ha saputo creare, quindi, un essere potenzialmente immortale e capace di regredire a uno stadio precedente, mentre “noi mangiamo, scambiamo particelle/che muoiono per diventare altro/in noi che altro non siamo che quell’altro/convertito in visione dei contrari/che rilasciano miti e cittadine,/stati etici, tram, scuole, sms.”, scrive Nove.
Esiste, per noi umani, qualcosa di simile? Sicuramente non letteralmente, non a livello fisico. Ma a un livello più profondo?
Un trauma, in un certo senso, blocca il nostro sviluppo: una parte di noi resta fissata al momento dell’evento traumatico. Questo blocco attiva le nostre risorse “di emergenza”, comuni con gli altri animali e che ci caratterizza dall’inizio della specie. Tutto questo avviene, almeno in parte, a livello del tronco dell’encefalo: la parte del nostro cervello più primitiva e legata alle emozioni. Il lavoro che si fa in analisi bioenergetica sul trauma, grazie a tremori che nascono spontanei suscitati da particolari esercizi, riporta il tronco a una situazione plastica simile a quella del trauma permettendo di rilasciarne le conseguenze negative e il blocco causato e lasciando alla saggezza del corpo la possibilità di auto-curarsi.
Nell’analisi junghiana, poi, i continui episodi “regressivi” che capitano nel corso della terapia, non vengono interpretati come un tornare indietro e “rifare sempre i soliti errori”, ma come un movimento necessario alla psiche per apprendere bene, per stabilizzare meglio un momento evolutivo. La regressione è paragonata al tema mitico del “viaggio notturno dell’Eroe”, un discesa agli inferi per poter risalire nuovamente alla luce. Più banalmente, forse, un prendere la rincorsa per spiccare un salto in avanti!
Infine un esempio a cui ultimamente mi trovo affettivamente vicino, e questo ci riporta all’apertura: il Gioco della Sabbia. Una terapia non verbale – nata e sviluppata da Dora Kalff, un’allieva di Jung – che permette, grazie al gioco con diverse statuine e figure che ritraggono idealmente tutto ciò che esiste e si può immaginare (una collezione in continua espansione) di creare mondi nello spazio contenuto e protetto della cassetta di sabbia. Quando ci si accosta a questa terapia, viene naturale “regredire” serenamente e positivamente, tornare bambini. Dal momento che tutto avviene senza parole, le scene create provengono da una zona remota e profonda della nostra psiche, una zona a cui le parole, il linguaggio e la mente razionale, spesso non hanno accesso diretto. Le immagini create nella sabbia attingono alla stessa fonte cui attingono i sogni, ma sono immediatamente accessibili, venendo create da svegli. Avendo un mezzo a fare da mediatore fra noi e l’inconscio, è anche più facile andare oltre le difese che ci impediscono di esplorare certe zone di noi che lasciamo in Ombra. La possibilità di crare più volte queste “scene dal profondo”, mette in azione la capacità della Psiche di prendersi cura di sé (e di noi), e di andare dove ha bisogno di andare (o di portarci).
Entriamo così in un mondo magico, in cui possiamo sinceramente augurarci di vedere un mondo in una cassetta di sabbia e l’eternità in un’ora.
“Noi esseri umani siamo come gli alberi, radicati al suolo con un’estremità, protesi verso il cielo con l’altra, e tanto più possiamo protenderci quanto più forti sono le nostre radici terrene”
Alexander Lowen
Passeggiando in un bosco mi sono imbattuto in questo albero. Spiccava verde nella spoglia vegetazione invernale. Avvicinandomi, tuttavia, mi sono reso conto che la realtà non era ciò che sembrava: a esser verde era una specie di rampicante, mentre l’albero vero e proprio era secco.
A volte uno psico fa lo psico anche fuori posto (questo anche perché, specialmente quando parliamo di psicologia del profondo, non si fa lo psicoterapeuta, lo si è), quindi questa visione mi è sembrata una metafora e mi ha portato a questi pensieri.
Quel rampicante è come un’immagine di noi artificiale, qualcosa che vogliamo mostrare a tutti i costi. Un’immagine bella e rigogliosa, anche se fuori e pieno inverno e il bosco è secco, con le foglie cadute a terra. Anche se pure le nostre foglie sono cadute e pure noi siamo secchi. Questo può succedere in numerose occasioni, anche quando semplicemente “facciamo buon viso a cattivo gioco”. Ma può diventare un’insidia: il rampicante è un parassita, e può arrivare a soffocare ciò che siamo realmente (il nostro vero Sè, si dice in psicologia). A volte possiamo identificarci troppo con l’immagine che diamo di noi, la nostra maschera (o Persona nella definizione di Jung). Per questo Lowen, il creatore dell’analisi bioenergetica, quando parla di narcisismo, parla di “identità negata”: sacrifichiamo il nostro vero Sè a un’immagine, e questo è tanto più frequente in una società come quella attuale che tanta importanza dà all’apparire e all’immagine.
Anche in questo sta l’importanza della psicoterapia: ci offre uno spazio protetto in cui possiamo provare a mostrarci come veramente siamo, senza sentirci costretti a dare una parvenza di efficienza o di falsa felicità, in tutta la nostra fragilità. E in questo sta la nostra forza e una possibile rivolta contro la dittatura dell’immagine!
Il rapporto fra albero e rampicante era una metafora. Il simbolo, invece, è un tipo di figura retorica meno lineare, è un’analogia più subliminale, senza quel “è come” che spiega tutto. Ve la offro quindi così, lasciando a ognuno la possibilità di assimilarla come vuole.
Esiste un albero (ce ne sono esemplari bellissimi a Palermo), il Ficus Magnolioide, che, nella sua crescita, lascia crescere verso terra delle specie di liane, sono delle radici aeree. Quando queste toccano il suolo, mettono radice e diventano tronchi supplementari, permettendo al Ficus di crescere ulteriormente, sostenendo il peso dei grandi rami.
(Questo articolo è uscito per il Divenire Magazine, qui)